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PAOLO BATTAGLIA LA TERRA BORGESE GUARDA “MATERNITÀ”, OLIO SU TELA DI GIUDITTA Quando un pittore comincia il suo dipinto gli avvenimenti di cui parla si sono già verificati, e anche quando la scena è situata nel futuro l’autore la considera in genere come passata per poterci dare un periplo il più completo possibile dell’accaduto. Un lato importante dell’educazione di un artista – continua Paolo Battaglia La Terra Borgese - consiste nello scoprire le possibilità che l’arte ha di tradurre qualsiasi cosa in messaggio. A volte però l’artista non ha coscienza diretta del fatto che ispira la sua opera, e sia la sua esperienza ricordata consciamente o inconsciamente e sia l’ambiente scelto realistico o fantastico, comunque l’artista è quasi legato a rispecchiare la propria esperienza personale, così come il tipo di comunità in cui vive e il modo di pensare, di agire, di guardare della gente che lo circonda. Gli artisti che lavorano solo dietro ispirazione spesso credono di essere posseduti da una specie di forza soprannaturale che opera per loro tramite; questa convinzione può giovare all’artista se gli dà il coraggio di lavorare nonostante le avversità interiori o dubbi sulle “belle arti”, che sono quelle che distinguono la letteratura dal giornalismo, una sinfonia da una canzone di successo, un capolavoro della pittura da un manifesto e una scultura da una statuina di cera. È la qualità dell’idea a fare dell’opera un opera d’arte e si vuole apprezzare l’opera di un artista bisogna perciò rinunciare ai giudizi-lampo e studiarla con pazienza: non possiamo aspettarci di capire la sua opera di primo acchito. “Solo a distanza di anni mi accorgo di quanto l’alchimia abbia potuto agire nella realizzazione di “Maternità”: sono le parole dell’Autrice, Giuditta. Per tutti gli artisti l’istruzione professionale, l’abilità innata e la spiritualità sono condizioni essenziali. Per esempio Wolfgang Amadeus Mozart, il famoso compositore del xviii secolo, iniziò a comporre all’età di cinque anni e diede concerti in tutta Europa a sette. Evidentemente, un talento così eccezionale era dovuto principalmente alla sua abilità innata, ma perfino questa precoce abilità ebbe bisogno di esercizio e di preparazione tecnica. Una grande abilità tecnica può essere acquisita da pochi, senza anni di prove e di tentativi: è il caso della pittrice che sotto lo pseudonimo di Giuditta, e come il pittore francese Paul Gauguin, inizia a dedicarsi alla pittura a 35 anni. Lei è l’autrice del quadro che stiamo per esaminare, un lavoro creativo e brillante di olio su tela a cui Giuditta ha dato il titolo di “Maternità” per esprimere a sé stessa il personale concetto del Tutto. Un poema mitico dove le forme si allontanano in una più aperta distensione vivamente parlante; una sorta di metallurgia, di accoglienza termica allo scopo di rimuovere le tensioni interne dovute ad un raffreddamento troppo rapido, alacre di sofferenze animistiche e iatrochimiche insieme. La scena, in effetti, è un impianto alchemico ma possiede anche tutte le qualità estetiche adatte per piacere; tuttavia fiorisce in privato, perciò la sua realizzazione è un segnale necessario e al tempo stesso occasione propizia di svincolo dal gusto del pubblico. Già sul nascere le linee modificano aspetto e bellezza di cose e figure, per viaggiare a bordo di una vignetta dal linguaggio verbale quasi muto, ermetico, comprensibile esclusivamente a chi ha chance esoteriche e ne conosce la grammatica. “Maternità” non è dunque il modulo manuale di una abitudine visiva (che corrisponderebbe alla morte della vera creazione) ma la prolusione del creato con la sua visione più addentro filosofica e biologica nell’esistere. Si stabilisce un accostamento stretto e connivente tra l’Autrice e la scena. Senza intenzioni celebrative, vuole essere un’amicizia, il diario di uno stato d’animo meditativo e contemplativo che prevale sull’umore esistenziale e non si consuma in passiva querela. Equivale ad opporsi al turbamento della vita per cavarne una luce spirituale maggiore, risultato della ricerca di armonia con l’Universo. Maktub. Il concetto dell’arte e della creatività di Giuditta ha superato perciò con genialità la tradizione imitativa, pur elaborando i meccanismi operativi della logica classica. Compare quello che ha fatto Esher, amalgamando la lucidità matematica con la libera creatività dell’inconscio. È doverosa ora un’occhiata agli imperativi che nascono dall’intimo di Giuditta, a quelle proprietà che le caratterizzano l’intelligenza e animano la creazione di una realtà segreta ché traluce dal fondo dell’anima più che dal taglio logicale. Immediate risaltano le qualità cromatiche nuove e straordinarie che sollecitano l’osservazione in direzioni inusitate, per una sorta di esigenza di saggiare le realizzazioni della mimesi pittorica oltre l’immediatezza schematico-proporzionale della tradizione. Ciò che si deve mettere a fuoco nell’opera di Giuditta è il rapporto fra passato e presente, che non può essere risolto a favore di alcuno dei due momenti giusto per non riprodurre la dualità troppo facile dello storicismo ottocentesco, che distingueva ”scienze della natura” e “scienze dello spirito”, assolutizzandone la diversità sulla base di una concezione filosofica superata. Qui, dunque, soggetto ricercante ed oggetto ricercato si definiscono in una certa misura reciprocamente. Ed è nel valore alchemico dei colori e nell’insolita vetrina degli elementi figurati che possiamo scoprire il risultato di Giuditta in “Maternità”, che, nondimeno, è ottenuto con effetti autentici e ricercati. La madre, Athanor, è rappresentata nell’atto di tenere in braccio il suo bambino dopo averlo asciugato dall’acqua del bagnetto. La percezione della distanza che li separa li unisce nell’espressione dello sguardo amorevolmente diretto e preciso agli occhi e si occupa unicamente di provocare nell’osservatore determinati sentimenti, determina anche e soprattutto il luogo del significato: lo specchio, quale conseguente conoscenza interiore e riflessiva, che fa delle due figure unica persona concepita dalla bellezza, e mette in evidenza il significato del conoscere speculando sull’immagine della realtà, è esegesi che la madre trova nel bambino: sé stessa. Caratteristica dell’abito (rosso), degli altri tessuti proposti (bianchi), e del quadro in generale, è una eccezionale qualità formale della pittura che smaterializza il colore ricco e vibrante in un tessuto completamente depurato nella sua fisicità e teso ad evocare immagini del pensiero in cui si collocano figure animate da una luce irradiante che sembra scaturire dal loro stesso spirito madre-figlio. Sono le piastrelle dorate ad essere chiamate quali messaggere della Luce e così dipinte in posa contribuiscono a determinare ripetutamente la Croce: l’Axis Mundi ch’è l’attributo primario di Cristo. Egli è il “Sole” che illumina di nuovi significati tutti gli eventi passati e futuri della storia dell’uomo. Giuditta imprime nell’opera con la Croce la concezione ciclica del tempo, e lo fa con la sua naturale propensione alle ampie stesure cromatiche che con pennellate morbide divengono soluzione piacevole ed efficace per visualizzare la forma in maniera rapida, corsiva, abbreviata. Dunque questo lavoro della Giuditta è il risultato di un incredibile gioco di cromie inteso come processo di decontestualizzazione di una atemporalità di fondo, che trasforma le figure ed i soggetti in moduli espressivi difficilmente classificabili e catalogabili, tesi al raggiungimento dell’assoluto e dell’infinito con la purezza delle luci sono il riflesso di una ideologia che è fede. Ed il dato realistico è soltanto il dato di partenza, perché per il resto si assiste ad una sorta di trasfigurazione che si fa sempre più evidente e palese laddove il dato realistico è soltanto l’elemento in virtù del quale scatta la molla iniziale della sollecitazione. Alfabeto e messaggio. E la sua mano ha il pregio di seguire non impulsi inconsulti, preparati o studiati, ma una voce dentro che manovra così sotto dettatura dell’anima e d’un grande cuore. Quel che rende possibile un simile processo di trasfigurazione poetica del reale, è la maestria disegnativa della pittrice che gioca come vuole con la prospettiva, le anatomie, che manovra i piani, che scala le distanze a suo piacimento e sa ridurre all’essenziale alcune scelte di colore che la contraddistinguono come artista culturalmente predisposta a seguire la lezione cezanniana di rigore e severità nell’uso delle materie pittoriche. Nei ritratti ricavati con sobrio impasto di colori vive il lampo di una gioia incontenibile rarefatto nel senso di stupore e mistero che avvolge la vita. La pittura di Giuditta qui non accusa nessuna traccia di scuole, né scie di altri pittori. Nessuna influenza esteriore. Si tratta di una pittura personalissima ch’è un meraviglioso gettito di spontaneità, un’arte sorgiva che defluisce da una sensibilità ricca, inarginabile. In questa tavolozza della Giuditta si avverte un clima poetico di alti valori, sia quando è di una lievità astrale, sia allorché si accende di tinte dense, carnose: è allora una densità quasi sensuale, ma aureolata di spiritualità. La misura dell’acume e del magnifico talento di questa pittrice ce li danno incisivamente i due volti: sono di una introspezione psicologica che sorprende. Sono pochi i ritrattisti che sanno come frugare dentro, scavare in profondità e far affiorare su ogni volto tutta l’anima con i suoi sentimenti, le sue zone di ombre e di luce. Nella veduta generale dell’interno proposto sulla tela è condotta una particolare suggestione che mira particolarmente alla rappresentazione di un mondo morale, con attenzione primaria alla condizione umana vista in una proiezione al di là di limiti e di leggi materiali, venata di una freschezza incantevole e di un entusiasmante lirismo di una situazione complessa e in una sorta di epicità popolare. Metafora della vana apparenza e della caducità dei beni terreni la visionarietà di Giuditta resta nei colori aiutati, celati come sono alla conoscenza intima dell’opera, da oggetti e soggetti fatti apparire come parte consueta della nostra realtà quotidiana, della nostra normalità più abituale e conclamata per preservare l’intimità e l’identità alchemica che l’autrice desidera condividere solo con sé stessa. Trova perciò nel reale lo scrigno della propria dimensione concettuale depurata da ogni descrittivismo. Tutta fiata, nella realizzazione, la pittrice non manca di recuperare e manifestare la dimensione perduta del linguaggio prezioso del silenzio, più per sé stessa che per l’osservatore. L’assoluta spiritualità che domina Giuditta muove la sua ricerca pittorica sul viatico alchemico dell’armonia cosmica e morale (anche quando significate nelle tematiche religiose). Così che la vasca simboleggia la Caverna (che qui non è nera e oscura ma blu e più avanti vedremo il perché); l’Acqua il ritorno allo stato primordiale che con la nascita si perde (spugna e sapone); i due teli servono a dipingere il bianco ma anche a ricordarci che con la nascita si perde Purezza (religione); il vaso assume valore funzionale per la raffigurazione dei fiori (la Logica, una delle sette arti liberali, talvolta regge un mazzo di fiori, ma qui calle e anthurium - che nella iconografia simbolica floreale classica non sono annoverate - divengono attributo con la caducità della natura umana); le decorazioni floreali a cinque petali sulle piastrelle sono la stilizzazione della Stella (Tradizione e Religione) mutuata dalla scuola di Pitagora, memento per tradurre sul dipinto i cinque sensi: Vista, Odorato, Tatto, Gusto, Udito, a cui la Stella afferisce anche come riferimento al Peccato, tant’è che la stella è rinvenibile in una Mela tagliata orizzontalmente; e i decori al vaso portafiori servono a riprodurre il viola quanto le foglie degli stessi fiori il verde. Giuditta latita da nero e arancione con i quali completerebbe la simbologia cromatico-alchemica. Il primo è il colore profondo in noi stessi, sede dei nostri vizi, del buio e delle tenebre, della Caverna, vi risiedono anche il male e ciò che di cattivo è in ognuno di noi, e che dovremmo Illuminare dietro l’introspezione necessaria ad individuarli e riconoscerli come un Dioniso, ovvero è lui stesso che si tiene dapprima in prigione ed è lui stesso che parimenti agli iniziati alla fine si libera, come hanno detto Platone e Pitagora (il nero era nei Saturnali a Roma la festa del Solstizio d’Inverno che a fine anno coincideva con la morte e la rinascita del Sole). Il secondo, l’arancione, sta a designare l’equilibrio del chakra sessuale, non è un caso che gli asceti usino abiti di questo colore per manifestare la loro condizione di distacco dalla comune società umana. Il rosso è compagno simbolico del sangue e perciò della vita. Il blu evoca la serenità azzurra dei cieli, il distacco dalle passioni. Gli uomini primitivi erano convinti che queste distanti misteriosità azzurre tra i monti fossero la residenza degli dei e degli antenati, e queste credenze imbevettero di blu la religione, infatti il blu è presente nell’iconografia religiosa di tutto il mondo. Nella cristianità moderna è il colore della Madonna, la Vergine Maria allegoria del femminile che incarna l’ideale e le qualità della madre perfetta con tutti gli attributi della compassione, della devozione, della fedeltà. Come icona dell’acqua il blu è suggestivo di altri significati: smacchia, alimenta, alleva, purifica e tramuta. La mescolanza di rosso e blu restituisce il viola, che è dunque palingenesi, transizione con umiltà verso la saggezza del divino. Il bianco non necessita di commenti, tutti sappiamo che evoca la purezza, la verginità e la spiritualità. Col verde, sinonimo di crescita, Giuditta rispetta e ama la natura.
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