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Melinda Miceli, esteta di prim’ordine, tutt’altro che imbelle, senza fariseismi, pedestre – giacché di formazione classica e umanistica – intraprende un epistolario, attraverso la pittura, che assicura certamente il suo nome alla storia dell’analisi dell’arte: i principi pittorici della filosofia critica vengono sperimentati di persona con la progettazione gravida di opere figurative su vetro. È il vetro, infatti, a consentire una scrittura di luce al pari della fotografia, così come ricercata dalla Miceli.
Su questa lastra dipinta dalla Miceli si ritrae e propone ciò che appare di una realtà che in futuro darà una testimonianza al costume, di una vita che muta speditamente. La scena è rappresentata come un angolo di salvezza dal mondo moderno, figura la negazione dell’offerta di consumo individualista. Una certezza che erompe dal cuore riluttante alla percezione isolata che non accenna più spazio agli altri e alla povertà, è l’amore fremente l’entusiasmo di una operosità mirante al bene.
L’arte è qui rimandata dalla Miceli ai Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton, dove il moto cosmico, preso a prestito per la simmetria che trova solo nel bene, perfezionerebbe l’uomo che nell’armonia trova l’equilibrio.
La Miceli sceglie tinte a toni forti, e cioè il verde, il blu, il rosso, il giallo, il bianco, il nero e il marrone, che sono quelle usate dall’uomo per la colorazione dei cavi elettrici, dunque energia da ἔργον «opera», con esplicito riferimento al Macrocosmo. Si tratta di una considerazione che discende dalla dimenticanza, che porta a equivocare tra il compito essenziale dell’arte e quello che possiamo definire un portato di qualsiasi dipinto senza alcuna traccia di dottrina sociale.
Questa iniziativa su vetro è proposta quale depuratore del riverbero che migliora la realtà, sociale e autobiografica, allignata; filtro che si manifesta nella negoziazione di una ragguardevole precisione assolutamente negata. La rappresentazione scenica ne esce infittita, ingente di nessi, di allusioni: nell’opera risulta distratto ogni dovere prospettico, rinviando alla gioconda, linda e chimerica condizione infantile, autorizzando erri fiabeschi e giubilanti in incantati mondi di letteraria memoria.
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