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E’ quanto sostiene lo psicoterapeuta Gilberto Di Benedetto che in sua breve nota ha affermato:” solo.le pulsioni di un giovinetto.innamorato.potevano partorire tanta ispirazione per Beatrice”.Dante era molto giovane nei giorni in cui incontrò Beatrice. La bellezza della fanciulla gli apparve misteriosamente in quella medesima luce nella quale i mistici hanno potuto “vedere” la dignità della persona nella altezza del suo destino eterno. La visione della bellezza rapidamente accese il giovanetto d’amore e gli consentì di vedere l’amata in uno splendore che evoca l’archetipo, ovvero il destino cui essa è chiamata. Non è inutile ricordare che la bellezza della persona poté essere vista da altri in condizioni diversamente estreme, come accadde a s. Francesco che vide occhi d’intensa, incantevole bellezza in un lebbroso e lo baciò. Divenne allora per lui dolcissimo ciò che, per l’innanzi, gli era stato sempre, amarissimo. Le due esperienze, tra loro apparentemente così diverse, non si contraddicono. Quando si vede una persona nella luce dello spirito, la bellezza dei tratti esterni è trascesa in nuova visione, sì che le espressioni più alte e rare (quali pure appaiono nella Vita nuova) risultano non più che testimonianza inadeguata.
Nell’orizzonte della cultura contemporanea, consideriamo una acquisizione irreversibile il fatto che l’inconscio si manifesti invincibilmente. Ciò accade in atteggiamenti anomali e patologici talvolta, ma abitualmente nei sogni, dove immagini e situazioni emotive si agitano secondo la diversa pressione dei desideri, delle paure, delle tensioni rimosse. Ma c’è ancora molta difficoltà a riconoscere che, in prospettiva simmetrica rispetto alla regione dell’inconscio “inferiore”, si apre la dimensione dell’inconscio “spirituale” che preme in noi per esprimersi nella creatività delle scelte di alto senso intellettuale, etico ed artistico. La nostra coscienza è non più che una ristretta fascia di confine tra l’inconscio inferiore, così ampiamente esplorato dalla psicologia del profondo, e l’inconscio spirituale, ancora poco indagato. A questa dimensione di inconscio spirituale Dante ha dato altissima espressione. L’idealità si dà a noi sempre e soltanto in forza del suo determinarsi in situazioni particolari, ma non si esaurisce mai in esse. Il sogno e la visione consentono all’idealità di irrompere nella sua inesauribile ricchezza. Sorge così l’intuizione di potenze che trascendono l’emozione di un giovinetto di fronte alla bellezza di una fanciulla. Il sogno della figura «di pauroso aspetto» che incute timore per la sua forza indominabile, la simbologia della fanciulla che sembrava «dormire nuda salvo che involta [.] in uno drappo sanguigno leggeramente», riconosciuta poi come la «donna de la salute», la visione del cuore che arde, la letizia e il pianto della donna: tutto ciò non è semplicemente una costruzione fantastica, ma evento di «alta fantasia». Sono immagini che irrompono inattese e aprono a dimensioni nuove (cfr. Vita nuova, III). Ma non può esserci grande poesia dove non si intende, almeno prospetticamente, l’evento. Ecco, allora, che si fa strada il rapporto a categorie e dottrine acquisite. I calcoli astrologici, lontanissimi dai percorsi scientifici moderni, ci appaiono un inutile e fastidioso fardello; ma possono essere letti come il tentativo di portare l’evento all’interno delle scansioni razionali del cosmo. La poesia provenzale e il Dolce stil novo forniscono a Dante i linguaggi che gli consentono di tradurre in poesia l’esperienza rara ed eletta che gli è stata data. Assai più della storia di amore, e più ancora del destino inevitabile di incomprensione, importa qui la narrazione della inadeguatezza d’ogni forma di poesia, sia pur altissima, perché la bellezza è per se stessa l’annuncio e lo splendore di verità più alte: «Oltre la spera che più larga gira / Passa il sospiro ch’esce dal mio core: / intelligenza nova, che l’Amore / piangendo mette in lui, pur su lo tira. / Quand’elli è giunto là dove disira, / vede una donna, che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira» (Vita nuova , XLI).
Tutta la vita del poeta rimane segnata da una grande visione: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire di più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei» (Vita nuova, XLII). L’intelletto d’amore è aperto alla propria attuazione nella luce dell’intelligibile; l’intelligibile diventa intelligenza in atto (ma non può esserlo mai compiutamente) nel «cor gentile»; ma è alto veramente solo il cuore che accetta di tacere e di attendere per trasformarsi e divenire meno indegno dell’evento che gli è dato. Non c’è contraddizione insolubile tra l’interpretazione di chi vede in Beatrice la figura della teologia e quella di chi insiste perché si ci si tenga fermi al riconoscimento di Beatrice quale persona amata. La realtà della persona amata rifrange la luce spirituale che la costituisce; ogni persona, come ogni evento, è intelligibile solo per la partecipazione della luce. Beatrice è certamente più che la giovanetta ammirata ed è più ancora che il simbolo della teologia. Essa è per Dante vivente icona in cui si annuncia la luce della verità. Il cuore della poesia di Dante si trova in questa apertura spirituale all’evento in cui si rivela lo splendore della verità.
L’«alta fantasia» accende l’entusiasmo in vista di più intense ricerche: le canzoni e i trattati del Convivio ne sono sviluppo necessario. In accordo con la tradizione scolastica, si parla di un quadruplice senso della Sacra Scrittura: letterale «quello che non si stende più oltre che la lettera», allegorico «quello che si nasconde sotto ‘l manto di queste favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna», morale è il senso che «li lettori deono intentamente andare appostando per le scritture, ad utilitade di loro e di loro discenti», anagogico «cioè sovrasenso; e questo è quando spiritualmente si spone una scrittura, la quale ancora sia vera eziandio nel senso litterale, per le cose significate significa de le superne cose de l’etternal gloria» (Convivio, II, 1). Confondere l’anagogia con l’allegoria o ridurre di fatto quella a questa seconda è causa di grave di incomprensione dell’opera dantesca e, più in generale, delle opere dove più ricca è la dimensione simbolica. Dove, infatti, l’allegoria fa riferimento ad una corrispondenza concettualmente definita tra le immagini e la dottrina ivi nascosta, nell’anagogia il rapporto tra le immagini ed il loro senso spirituale è indicato con precisione di prospettiva, ma senza presunzione alcuna di definitivo possesso di conoscenza. È vano pretendere una adeguata intelligenza dei simboli senza rapporto a solidissime dottrine, non perché essi debbano essere ricondotti necessariamente entro rigidi schemi concettuali, ma perché solo il gioco dei reciproci rinvii tra le due dimensioni consente un più alto intendere. Il Convivio, anche nelle sue parti teoriche, costituisce un momento necessario della poetica dantesca: se le più alte immagini non suscitassero nell’animo intelligente l’entusiasmo della verità, sarebbero davvero poca cosa. Luisa Corneri